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Su un libro di
Giovanni De Vita
Innanzitutto tre o quattro cose che so dell’Autore: da più di vent’anni egli svolge ricerca demo-antropologica, prima in collaborazione con l’Università di Bari, sotto la guida del professor Giovan Battista Bronzini, ed ora presso l’Università di Cassino. Tra le sue ricerche, c’è un interessante libro su Zapponata, che io stesso presentai in quella città, e i risultati del suo girovagare tra Accettura, Bari, Castelsaraceno, Chieuti, Fossalto, Jelsi, Matera, Monte Sant’Angelo, Orta Nova, Pietrapertosa, San Marco in Lamis, San Paolo Albanese, Santa Croce di Magliano, San Ferdinando di Puglia, San Severo, Torremaggiore, Tufara, Vallecorsa, Viggiano, Viggianello e tante altre città, alla ricerca di segni e attrezzi che accompagnarono nel passato la vita lavorativa degli uomini.
Ed ora veniamo
al libro: Fatto di tradizione e storia locale, pubblicato dai CC.RR.SS.EE.CC.
(Centri Regionali di Servizi Educativi e Culturali) di Torremaggiore e San Severo.
Lo stile è sobrio, con un perfetto uso dei segni d’interpunzione, che rendono di facilissima e piacevole lettura un lavoro di non semplice né usuale argomento. Il contenuto della ricerca, da parte sua, s’incardina saldamente nella tradizione e nelle vocazioni tipiche dell’Alto Tavoliere di Puglia, cioè di quella sub-regione della provincia di Foggia, stretta tra Gargano, Mare Adriatico e Subappenino Dauno, e può muoversi entro le attività agricole tipiche di queste zone, quali la cerealicoltura, l’olivicoltura e la viticoltura.
Il taglio espressivo che ne dà De Vita è un taglio eminentemente laico, che trasuda un linguaggio denso ed appassionato, privo di fronzoli stilistici e superflue ridondanze, senza ombra di compiacimento, ma carico ed appassionato, di una diretta comunicativa, che è il portato di un severo rigore razionalistico, proprio di un ricercatore serio e scrupoloso.
In questo lavoro, De Vita cerca gli snodi essenziali entro cui si è sviluppata la storia stratificata delle popolazione della Daunia, ma senza nascondere perplessità e titubanze sulle tante esposizioni “generali”, che si replicano reciprocamente, con enfasi quasi sempre ingiustificata.
Infatti, il problema non è tanto il mostrare, semmai è creare un museo capace di far entrare il visitatore o lo studente in armoniosa sintonia con una realtà strumentale e socio-economica, per sentirne l’afflato ed il forte richiamo promananti dagli oggetti d’uso popolare.
In qualche passaggio si avverte una certa repulsione dell’Autore, che dall’andito nascosto della sua ricerca raccoglie ed indica, ma nello stesso tempo, quasi con metodo d’indagine marxiana, vede del prodotto il risvolto umano, il gioco crudele di lotta e sopraffazione, ch’egli ritiene necessario segnalare alle popolazioni a venire.
Per questo c’è un rifiuto verso quei raccoglitori di cose che assumono un punto di osservazione semplificato sul mondo contadino, che viene reso, di volta in volta, in forma stereotipata o con la moralistica esaltazione dei sentimenti agresti.
Tutto questo viene detto col ritmo cadenzato e forte dalla prosa di Giovanni De Vita, che adopera la lingua, calibra pensieri e parole, per esprimere la sua rivolta contro certi metodi coreografici ed annichilenti, i quali con finta dolcezza vorrebbero esorcizzare la forza del passato.
Allora, si capisce bene il titolo del libro: Fatto di tradizione e storia locale, che intende subito calare giù le carte, per evidenziare che la materia di questo lavoro è un’opera combinata tra impianto storico e metodo antropologico. Il dato della ricerca diventa così il referente problematico per mettere in evidenza, aggiornare e contestualizzare di continuo i richiami alla dimensione culturale e sociale dei fatti.
L’incalzare dei capitoli di questo studio, che si snodano dai presupposti per un approccio demo-antropologico, fino alla proposta di recupero degli oggetti da porre in ordinata e stabile esposizione, onde orientare lo sguardo di un erigendo Museo demo-antropologico dell’Alto Tavoliere di Puglia, trova anche un articolato e diverso incalzare del linguaggio, a seconda che il momento sia dialettico o repulsivo o dissuasivo o dissenziente o di prospettiva.
Per questo mi sembra saggio, come pare anche a De Vita, inserire il folklore nella pratica scolastica, ricevendone vantaggi e variegate opportunità nel processo formativo. Tenendo ben presente, però, che un intervento di questo tipo non deve solo puntare ad un approccio estrinseco agli oggetti della tradizione, quanto piuttosto pensare al processo culturale e formativo che si mette in atto, nel momento stesso che ci si approcci ai valori e ai significati della tradizione.
Appropriatamente, perciò, egli riprende, a mo’ di esempio, un’esperienza lucana, che ha interessato la scuola elementare di Acerenza, nella quale si rivela un rapporto articolato tra saperi tradizionali e modalità d’insegnamento. Un microcosmo della tradizione contadina che diventa strumento didattico di conoscenza e, nel contempo, contenitore rappresentativo della identità locale.
Nel 1974, dopo la visita ad un’esposizione parigina, una strana collezione fatta di campanacci, capsule di bottiglia, fischietti di terracotta, biglietti ferroviari, rotoli di carta igienica, eccetera, Italo Calvino accennava al fatto che non è importante la cosa esposta in sé, l’importanza è nella spinta alla raccolta degli oggetti, nelle ragioni della messa in mostra; e tiene a sancire una separazione netta tra gli oggetti raccolti e le parole usate per descriverli.
Allora, parafrasando Calvino, sebbene con senso rovesciato, mi viene di concludere la disamina di questo bel libro affermando che l’incalzare della lingua di Giovanni De Vita - asciutta, leggibile, corposa, laica, rigorosa e perfetta - è l’espressione stessa del processo di definizione di un museo demo-antropologico così come lo vede lui, cioè come vero atto d’impegno e d’amore e per ciò stesso vero elemento di cultura, da segnalare alle diverse generazioni.
Italo
Magno
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